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“Il ruolo (mancato) della concorrenza nel pensiero debole Liberal-socialista”

Tratto dall’articolo:
“Il ruolo (mancato) della concorrenza nel pensiero debole Liberal-socialista”

di Giuseppe Bedeschi
Corriere della Sera. 26 giugno 2011.

Ha osservato Dario Di Vico, nel suo editoriale sul Corriere del 18 giugno («Meno liberali più laburisti»), che «in più riprese in passato si è sviluppato un movimento politico-culturale autodefinitosi lib-lab e che ha cercato generosamente di conciliare le due culture, la liberale e la laburista. Non ha conosciuto mai grande successo ma quel tipo esercizio non andrebbe comunque disperso, perché se i problemi sono laburisti, nell’economia di oggi — e con le scadenze che attendono il nostro Paese — le soluzioni continuano ad essere liberali». Mi pare che Di Vico abbia messo veramente il dito sulla piaga, sia quando ha lamentato lo scarso successo del liberalsocialismo da noi in passato, sia quando ha sottolineato le enormi difficoltà che esso incontra oggi.

Io credo però che si debba anche aggiungere che il pensiero liberalsocialista italiano è stato un pensiero debole, nel quale l’ispirazione socialista ha sopravanzato di gran lunga l’ispirazione liberale. Penso in primo luogo a un libro per certi versi molto importante, Socialismo liberale di Carlo Rosselli. Scritto nel 1929 nel confino di Lipari, questo libro — che al suo apparire era stato scomunicato sia dai comunisti (Togliatti scrisse che esso «si collegava in modo diretto alla letteratura politica fascista») sia dai socialisti (Claudio Treves rimproverò a Rosselli l’abbandono dell’idea del «collettivismo economico», e Giuseppe Saragat gli attribuì una interpretazione «formalistica» della libertà) — questo libro, dicevo, venne riscoperto e posto al centro del dibattito politico-culturale nel periodo di maggiore vitalità del craxismo. In numerosi interventi si insistette allora sulla critica, certamente forte e acuta, che Rosselli aveva rivolto al marxismo-leninismo. Durissimo era stato infatti il suo giudizio sulla esperienza bolscevica. In Russia, egli diceva, dodici anni dopo la rivoluzione si era raggiunto appena il livello di produzione prebellico nell’industria, mentre nell’agricoltura tale livello restava ancora inferiore. Anche nelle aziende industriali meglio organizzate si era lontanissimi dai livelli di produttività e di retribuzione delle corrispondenti aziende nei Paesi capitalistici. A ciò bisognava aggiungere il brutale sfruttamento dei contadini, ai quali veniva fatto pagare lo sviluppo dell’industria pesante. E tutto ciò, inevitabilmente, nel quadro di una dittatura spietata, che aveva imposto «sofferenze inenarrabili» al popolo russo.

Rosselli respingeva dunque il vecchio programma marxista-leninista, accentratore, collettivista, che fama dello Stato l’amministratore, il gerente universale. Egli rifiutava di pensare che il semplice fatto della espropriazione, il passaggio delle attività produttive alla collettività, fosse capace di determinare una trasformazione miracolosa: produzione e ricchezza moltiplicate, lavoro ridotto e gioioso, soppressione delle classi, delle lotte e delle guerre. «Per i socialisti seri — diceva Rosselli — coteste sono ormai favolette». Perciò egli pensava ad una economia a due settori — uno pubblico e uno privato — nel quadro di una democrazia pluralistica e liberale, capace di garantire a tutti i diritti civili e politici. Senonché, detto ciò, Rosselli aggiungeva che «è probabile che il capitalismo debba rinunciare alla sua egemonia, sottomettendosi sempre più a limitazioni e interventi da parte dei pubblici poteri; mentre si andranno estendendo le forme di economia regolata, nelle quali il principio del soddisfacimento del bisogno prevale sul principio del lucro».

Qui, chiaramente, l’ispirazione socialista (l’economia regolata, socializzata) finiva per prevalere sull’ispirazione liberale, fino a vanificarla. Posizione aggravata dalla convinzione di Rosselli che la borghesia ormai non fosse più una classe progressiva, bensì reazionaria, che produceva il fascismo, e che l’unica classe progressiva fosse la classe lavoratrice. In questo modo, con la demonizzazione della borghesia, anche il pluralismo sociale della concezione rosselliana veniva gravemente indebolito e pressoché vanificato. Ma che cosa mancava, possiamo chiederci, nel liberalsocialismo italiano? Mancava soprattutto, credo, un’idea fondamentale: il ruolo insostituibile del mercato e della libera concorrenza. Questa idea era stata espressa con grande forza, già nell’Ottocento, da John Stuart Mill. Questi — che pure aveva accolto le suggestioni degli ideali socialisti e aveva ipotizzato per – il futuro una economia incardinata su aziende cooperative — aveva però polemizzato aspramente con la critica della concorrenza fatta dai socialisti. «Essi dimenticano — egli aveva detto — che dovunque non vi è concorrenza, vi è monopolio; e che il monopolio, in tutte le sue forme, è una tassazione sugli uomini attivi per il mantenimento dell’indolenza, se non della ruberia».

In realtà la concorrenza è sempre a vantaggio dei lavoratori, in quanto riduce il costo delle merci che essi consumano. Ecco un’idea sulla quale il liberalsocialismo nostrano, se c’è, dovrebbe riflettere seriamente.

 

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